Capri è davvero mia? Una riflessione sulla qualità degli spazi pubblici

Marina_Piccola

 

di Antonio Desiderio –

Questo è lo spettacolo che la baia di Marina Piccola offriva Domenica 19 Luglio 2015. Un tappeto di barche dalla trama tanto fitta da nascondere l’orizzonte alla vista. Uno spettacolo, tuttavia, entusiasticamente salutato da alcuni come il segnale evidente del boom dell’economica turistica locale.

Non voglio discutere il fatto che una selva indistinta di scafi, l’odore acre di nafta e una patina di carburante sull’acqua, sia o meno lo specchio di un atteso boom economico (ammesso, ma non concesso, che una tale immagine paghi in termini turistici). La questione che sollevo è, invece, un’altra: la qualità degli spazi pubblici.

Osservando quello specchio d’acqua la domanda che viene da farsi è: Di chi è questo spazio? In teoria, di tutti. Ma, nella realtà, a chi appartiene davvero?

In termini generali, uno spazio pubblico è uno spazio al quale tutti possono accedere  senza distinzione di età, genere, etnia e ceto; e che tutti possono liberamente utilizzare (in conformità delle regole del vivere civile e della legge), senza essere esplicitamente e/o implicitamente indotti a compiere attività che non siano l’utilizzo e la pratica liberi di quello stesso spazio.

Dunque, di chi è, davvero, lo spazio ritratto nella foto? Del bambino che vuole giocarvi? Della signora che vuole nuotarvi? Possono il bambino e la signora giocarvi e nuotarvi senza correre il rischio di essere travolti, o senza doversi immergere in una miscela di acqua salata e carburante – e magari altro?

Stando questa definizione, sono pochi gli spazi pubblici liberamente accessibili, praticabili e utilizzabili a Capri.

Posso andare in piazzetta, con l’intenzione di leggere il giornale o incontrare un amico per fare due chiacchiere senza sentirmi in qualche maniera indotto a sedermi ai tavolini di un bar e consumare – quindi pagare?

Mio figlio/a può correre a via Camerelle? Può andare in bici? I miei nonni troveranno una panchina dove poter passare un paio d’ore, magari consumando un panino preparato a casa?

Le uniche due spiagge pubbliche esistenti sono sufficientemente attrezzate in termini igienico-sanitari, di praticabilità e accessibilità (si pensi ai diversamente abili e agli anziani) da consentire a chi non voglia o possa permetterselo di pagare per i servizi di un lido privato? E non si dimentichi l’abuso perpetrato da alcuni gestori di bar e ristoranti che occupano porzioni di spiaggia pubblica con sedie e ombrelloni da fittare.

Se i nostri figli volessero giocare all’aria aperta, dove potrebbero andare senza correre il rischio di essere investiti da un carrello elettrico?

Quindi la domanda: A chi appartengono, realmente, gli spazi pubblici di Capri? Ricordando, ancora una volta, lo slogan che circolava in campagna elettorale, ‘Capri è mia’, chiedo: Capri è davvero mia? O non è piuttosto vero che ciò che crediamo sia nostro è invece oggetto di un continuo processo di privatizzazione di fatto?

Ma poi, che significa ‘nostro’? Chi questo ‘noi’ include e chi, invece, esclude? Il miliardario Russo ne fa parte? L’immigrato extracomunitario ne fa parte? Il Milanese, Il Romano, il Fiorentino, Il Napoletano, Il Palermitano ne fanno parte? Come vengono stabiliti e chi stabilisce i criteri di inclusione ed esclusione?

Piuttosto che di slogan c’è, invece, bisogno di un’idea di spazio e di sfera pubblici che plasmi i contenuti, e le pratiche, di questa pubblicità. Un’idea la cui costruzione non può risiedere nelle pratiche arbitrarie dei privati – le quali sono per natura esclusive, non-pubbliche. Ma in un processo di decisione democratica, dunque inclusiva, che investa l’amministrazione, i privati e la comunità dei cittadini nelle sue varie articolazioni.

 

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