Chiediamo più lavoro, non più precarietà

disoccupazione

Lo sguardo corto della campagna
per il mantenimento a sei mesi dell’assegno di disoccupazione

– di Antonio Desiderio –
La recente campagna condotta da alcuni politici e membri della società civile caprese contro il decreto legge del Governo Renzi che riduce la fruibilità dell’assegno di disoccupazione, implica una riflessione sulla fragilità del sistema economico locale e sulla povertà della proposta politica per risolvere tale fragilità.

Un fatto, intanto. L’assegno di disoccupazione esiste nella misura in cui e fintanto che esistono disoccupazione e precarietà. Un contesto, come quello di Capri, nel quale la gran parte dei contratti di lavoro copra soltanto una parte dei mesi dell’anno è un contesto di precarietà lavorativa che implica diverse conseguenze. La più immediata: l’incertezza della fonte di reddito. Tale incertezza sta nel fatto che un contratto stagionale non dà alcuna garanzia circa il rinnovo del contratto per l’anno successivo. A differenza di quanto si è stati abituati a pensare in passato, negli ultimi anni sono sempre di più i casi di mancato rinnovo del contratto. La formula ‘lavoro stagionale’ può dunque essere letta in termini di ‘disoccupazione stagionale’, a seconda della prospettiva dalla quale la si consideri. In un caso o nell’altro, tuttavia, si tratta di precarietà.

Senza trascurare il fatto che l’assegno di disoccupazione abbia costituito una importante forma di sostegno al reddito per molti lavoratori e famiglie che non erano in grado di produrre un reddito stabile, c’è un ulteriore elemento che va considerato. E cioè la distorsione di cui questo strumento è stato oggetto. Con il silenzio-assenso di chi avrebbe dovuto controllare che l’erogazione dell’assegno avvenisse secondo criteri di legalità, si è negli anni consolidata la consuetudine di integrare il reddito di disoccupazione con forme di lavoro non regolate e tassate: lavori a nero o impieghi all’estero. In molti casi, complice l’inefficienza del sistema nella ricerca e nell’offerta di lavoro, si è rinuncia aprioristicamente alla ricerca di un impiego.

Nel corso degli ultimi decenni, il sistema economico caprese si è strutturato in base al binomio lusso-mare; il quale produce un ciclo economico di sei mesi, approssimativamente. Si tratta, per i locali, di un sistema economico a basso livello di investimenti e innovazione, che produce un tipo di rendita passiva. Per fare un esempio, i proventi dei fitti di negozi e depositi alle griffe non vengono reinvestiti in attività produttive e, tantomeno, in formazione; cosicché commercio, imprese e management vanno nella mani di soggetti esterni. Al di là di uno sparuto numero di casi, quanti alberghi sono di proprietà di imprese locali? Quanti direttori d’albergo l’isola mette a disposizione? Ci troviamo nella situazione paradossale dove, da un lato, si aizzano vuoti e banali slogan per la ‘capresità’ (‘Capri ai Capresi’, ‘Capri è anche mia’); mentre, dall’altro, non ci sono interventi o programmi coerenti per promuovere la formazione di professionalità locali. Nel corso degli anni ’90 si è diffusa l’idea che si potesse tranquillamente rinunciare alla formazione scolastica e professionale in virtù della possibilità di lavorare come commesso/a e di guadagnare stipendi considerevoli. La crisi degli anni successivi, in particolare delle attività controllate dall’imprenditore Roberto Russo, ha ristretto l’offerta di lavoro. Molti lavoratori si sono trovati nella condizione di non avere più non soltanto un impiego, ma anche una formazione che li rendesse in grado di competere sul mercato del lavoro – un mercato del lavoro stagnante per via di cicli commerciali brevi.

Dunque, l’esistenza di cicli economici sempre più brevi (mi riferisco al complesso delle attività legate al turismo), accompagnati dalla saturazione di alcuni settori produttivi (si pensi all’edilizia) e dalla scomparsa di altri (ad esempio, l’artigianato e diverse categorie di commercio) indicano una condizione di crisi e fragilità economica. Di fatto, un sistema economico legato in maniera quasi esclusiva ad un unico settore di attività commerciale (in questo caso quello del lusso e delle griffe), è un sistema poco flessibile, quindi fragile e maggiormente esposto a  fasi di volatilità e instabilità. Per dirla in parole povere, in condizioni del genere, non c’è bisogno che aziende come Prada o Gucci falliscano per mandare in tilt il sistema. Può semplicemente darsi il caso che una o più aziende del genere decidano di trasferire altrove i propri punti vendita per generare un eccesso di domanda di lavoro che il mercato locale non è in grado assorbire. Lo si è visto negli anni passati con la crisi delle attività controllate dall’imprenditore Russo, come si è detto sopra; e più di recente con la decisione della griffe Benetton di sostituire il personale locale con personale esterno per ragioni di ‘razionalizzazione’. D’altra parte, è bastata la semplice decisione del governo Renzi di ridurre da sei a tre mesi l’assegno di disoccupazione per generare una situazione di criticità. Diverso, invece, è il caso di un sistema più articolato, sostenuto da una varietà di attività commerciali e produttive. Il quale, nel momento in cui un fattore esterno intervenga (ad esempio, la chiusura di uno o più punti vendita di griffe o il licenziamento di personale dovuto a esigenze di ‘razionalizzazione’) è in grado di assorbire il surplus di domanda di lavoro.

Storicamente, la politica ha sempre ignorato il problema della disoccupazione e della precarietà a Capri. Conferma ne sono i programmi elettorali che i cittadini sono stati chiamati a giudicare nella primavera del 2014 – dai quali disoccupazione e precarietà, insieme alle possibili soluzioni, sono assenti. Ma il fatto che tali problemi siano assenti dal discorso politico locale non significa che non esistano. La questione della disoccupazione, come abbiamo visto, investe il più ampio problema della struttura dell’economia locale – e della sua ristrutturazione.

Pensare e operare una ristrutturazione che estenda il ciclo economico caprese dagli esistenti sei (ad essere ottimisti) a dieci, undici o dodici mesi (perché non dovrebbe essere così?) richiede tempo, fatica e uno sforzo collettivo da parte di tutta la cittadinanza (lavoratori, imprenditori e politica). Non è qualcosa che si possa fare in poco tempo – e tantomeno pochi mesi prima delle elezioni. Soprattutto, è qualcosa che rischierebbe di andare a toccare consuetudini e interessi consolidati, sia di parte dell’imprenditoria che della forza lavoro locali.

Tuttavia, una classe politica responsabile dovrebbe a questo punto porsi la domanda di come risolvere le cause della disoccupazione – quindi, di come allungare una stagione lavorativa breve. Una classe politica seria dovrebbe, in altri termini, porsi la domanda di come creare le condizioni perché i lavoratori possano lavorare di più e meglio, non di meno e peggio. Aizzare la gente a chiedere l’estensione straordinaria dell’assegno di disoccupazione significa volere, da un lato, il consolidamento di una condizione di precarietà, dall’altro, il riconoscimento di un abuso. Sia in un caso che nell’altro, si tratterebbe di cure palliative che agiscono sugli effetti, piuttosto che sulle cause del problema; e che andrebbero, quindi, ad aggravare la fragilità del sistema economico locale.

Antonio Desiderio

Antonio Desiderio

 

 

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