Pino Daniele era bello perché era brutto

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di Antonio Desiderio –

– Un anno fa, il 4 Gennaio 2015, moriva Pino Daniele. Molto è stato scritto e detto sulla sua musica e la sua poesia. Forse più nei giorni immediatamente successivi alla sua morte di quanto non sia stato scritto e detto nell’arco della sua intera vita artistica. Ma si sa. Che ci piaccia o meno, anche questo è l’Italia. Il paese dove tutto è gossip. Dove alla ‘Barbara d’Urso’ di turno viene data la possibilità di conformare la ‘cultura’ di un ‘popolo’, e dove la morte, ridotta ad evento mediatico, fa share.

Molto è stato scritto e detto. Da critici, musicisti, giornalisti, discografici. Io non sono un critico. Musicista, forse, lo sono stato quando ero molto giovane. Non sono un giornalista. Di certo non sono un discografico. Non sono quindi in grado di dare un parere da ‘esperto’ sulla produzione artistica di Pino Daniele – che molti chiamavano, odiosamente, Pino. A volerla dire tutta, se anche fossi stato in grado di farlo, non l’avrei fatto. Vorrei usare queste poche righe per dire ciò che per me è stata la musica di Pino Daniele. Ciò che ha rappresentato.

Pino Daniele mi piaceva perché era brutto. Anche negli anni in cui la sua musica è diventata più commerciale, a volte insopportabilmente commerciale, abbandonando il dialetto napoletano per un italiano che suonava davvero male, era brutto. Orgogliosamente brutto. Il brutto di una realtà e di una verità che venivano gettate in faccia a quella che il genio comico di Crozza chiama ‘l’Italia dei carini’. L’Italia delle borse firmate, ridicolmente portate da donne più e meno giovani come se avessero il gesso al braccio – con il cellulare di ultima generazione rigorosamente in vista, s’intende. L’Italia degli ‘uomini con il borsello’ (Elio e le storie tese docent) e pashmina di finto cachemire al collo.  E quanti se ne vedono di fighetti e squinzie del genere in Italia e nella nostra amata Capri! Che fanno finta di dimenticare che non le loro trisnonne, ma le loro nonne e madri hanno ancora un mattarello tra le mani per impastare e zoccoli ai piedi d’estate per stare più fresche (e magari tirarti dietro se fai una cacchiata).

Pino Daniele era per me quel ‘brutto’ che i ‘belli’ non potevano cantare, perché non potevano, non volevano, capire. E per forza. Ti costringeva a ricordare chi sei e da dove vieni. E che figura ci fai di fronte al popolo dei bracci ingessati e delle pashmine, una volta che ammetti che sei figlio di un operaio, di un contadino, di una massaia, di un pescatore o di un muratore? Pino Daniele era quello di “je so pazz, nun ce scassat’ o cazz’!”. Come a dire: “io sono quello che sono, che vi piaccia o meno!”. Era quello di semplici piaceri come “ ‘o zucchero ca scenn’ int’ o café, e cu’ na presa d’anice ma chi è meglio ‘e me?”. Il che, come si dice qui da noi, ‘pare brutto’ negli ambienti chic.

Al profumo di quel caffè la musica di Pino Daniele mi riportava quando in metropolitana attraversavo la zona Est di Londra per andare all’università, nell’artificialità e nella desolazione senza sentimento di palazzi d’acciaio per ricchi e centri commerciali extra lusso in costruzione. E un po’ di malinconia me la faceva venire. Sarà un pensiero banale, ma è così. A volte, anche nella banalità c’è della verità.

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